(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

lunedì 12 aprile 2010

Lo sceriffo, Mangiafuoco e i costruttori di piramidi

I ragazzi mi chiamavano “lo sceriffo di Rivoli Bianchi”. La stella appuntata all'altezza del seno sinistro ce l'avevo. Il cinturone e gli stivali pure. La polvere di Rivoli copriva impietosamente ogni cosa, come sul set del più classico Mezzogiorno di fuoco. Ma non era carnevale. E non stavamo girando un film. Avevo vent'anni e facevo l'ufficiale in un battaglione di Alpini dislocato a Tolmezzo. Carnia. Cimutonia, per i ragazzi di leva, che provenivano in prevalenza dalle provincie di Treviso e Verona. La Società Filologica Friulana, gloriandosi di un tanto autorevole testimonial, ricorda sovente uno dei primi recensori della parlata locale, il Sommo Poeta, nientemeno! che nel De vulgari eloquentia annota come già ai suoi tempi gli abitanti di queste terre ces fastu crudeliter accentuando eructant. Per rendere omaggio all'illustre padre, una delle riviste che ai giorni nostri ancora pubblica la Filologica si chiama: Ce fastu? Ai ragazzi di Treviso era invece rimasta nelle orecchie un'altra espressione friulana, per loro altrettanto eruttiva e crudele: ce mut. E fu così che i ciargnej si trasformarono in cimutoni.
A Rivoli Bianchi gli Alpini del mio reparto gestivano la manutenzione di un poligono. Ma non un comune campo da tiro per moschetti e carabine. Disteso sulle sue ghiaie desolate correva un giocoso binario. Lungo quelle rotaie in occasioni speciali transitava un carrello su cui era installata la sagoma di un carrarmato (confermo: non era carnevale), mentre da una postazione blindata alcuni burloni giocavano a tiro al bersaglio con granate di obice da 150. Queste celebrazioni erano di solito presiedute dal Capitano Mangiafuoco, che con occhi di bragia urlava i suoi comandi. Era costui un uomo tarchiato, dalla folta e ispida barba corvina che faceva tutt'uno con la capigliatura, disposta a raggiera intorno all'ovale del viso. Il mio capitano. Nel quotidiano sforzo di mantenere operativi i militari a lui assegnati, fin dal mio arrivo a Tolmezzo il Capitano mi affidò incarichi di grande responsabilità. Teatro della prima missione cui venni comandato la val Aupa, alla ricerca delle pietre piatte. L'operazione si rendeva necessaria per pavimentare le aiuole perimetrali del grande cortile della caserma, dove furono sistemate alcune panchine. Portato a termine l'incarico senza sacrificio di uomini e materiali, potevo dire di avere ormai conquistato la fiducia del Capitano. Dopo una serie di altre prove di abilità (non ultima l'allestimento di un acquario per la mensa ufficiali, dal quale ebbi il buon senso di escludere i pesci tropicali mentre con fatale sventatezza acconsentii ad accogliere un paio di piraña), venne il momento di prepararsi per la campagna d'Egitto.
Sì, insomma, la stagione dei grandi lavori di Rivoli Bianchi. I cammelli non c'erano, ma le piramidi le ho fatte costruire sul serio, proprio come l'architetto siculo dei fumetti di Asterix, anch'io sotto la costante minaccia di finire in pasto ai coccodrilli sacri. C'era bisogno di consolidare il terrapieno che sosteneva le postazioni di tiro degli obici (dove però, al posto della terra c'era la ghiaia bianca di Rivoli). Dopo avere sistemato alla base del terrapieno una serie di gabbie di rete metallica a forma di parallelepipedo, il manipolo di giovani deportati ai miei ordini passò intere settimane a riempirle di ciottoli e pietrame, sistemandole in file sovrapposte e sfalsate come tanti grossi mattoncini LEGO. Ogni volta che ai lati di una strada di montagna rivedo ancora oggi gabbioni simili, penso sempre al sudore di quei giorni di naia. Per fortuna, fra gli Alpini di leva c'era sempre qualcuno che da civile già lavorava come idraulico, muratore, falegname, elettricista, e la Forza Armata non mancava di valorizzare adeguatamente le loro acerbe professionalità. Il poligono di Rivoli Bianchi aveva in realtà bisogno di un serio intervento di risanamento. Ma ci si doveva arrangiare con quel che c'era. I sanitari dei servizi igienici, ad esempio, erano da buttare. Almeno a sentire uno dei ragazzi, che diceva di essere un idraulico. Siccome però non avevamo materiale di ricambio, arrivammo a un compromesso: l'esercito sulla vernice non lesinava, e così tinteggiammo di bianco le turche dei bagni et voilà, erano tornate come nuove! Mangiafuoco naturalmente, da buon comandante, sorvegliava con attenzione l'avanzamento dei lavori e dopo che un giorno, scrutando il cantiere col binocolo da posizione sovrastante e defilata, ebbe sorpreso i miei giovani operai in uno dei rari momenti di sosta che concedevo loro, dovetti sorbirmi le sue reprimende. Dato che eravamo in vergognoso ritardo, gli uomini avrebbero dovuto lavorare fino ad avere il sangue alle mani! Queste erano le nuove disposizioni. Ebbi l'ardire di ribattere, assicurando il Capitano che già qualcuno dei miei ragazzi si trovava in quelle condizioni, e Mangiafuoco, dopo avermi fulminato con lo sguardo mi gelò: “Bene! Ancora una volta gli Alpini potranno dire di avere dato il sangue per la patria!”.

Oggi con Daniela abbiamo deciso di salire a Illegio, che oltre ad avere un nome capace di evocare il fascino delle foreste di druidi intenti alla raccolta del vischio, accoglie da qualche tempo pregevoli mostre di arte sacra. Quest'anno, per un mese, esporranno anche un Caravaggio, che dai suoi custodi romani è stato rilasciato soltanto poche volte, tre, per essere precisi, in occasione di altrettante precedenti mostre: Londra, Parigi, Washington. Mi pare un'occasione da non perdere e di buon mattino ci mettiamo in strada alla volta dei carnici rilievi. Se ben ricordo, il paesino sta nei pressi di Tolmezzo, ma per maggiore sicurezza verifico su internet. Arrivati al capoluogo montano, poi, troviamo eloquenti indicazioni e il nostro viaggio procede senza intoppi. Salvo che, a un certo punto del percorso, incerto sul da farsi mi arresto e, quando sto per interrogare l'oracolo satellitare che riuscirà prontamente a dirimere il mio dubbio, guardandomi intorno riconosco un paesaggio familiare. Allungando la vista sul fondovalle, ritrovo i ciottoli bianchi delle mie piramidi giovanili e, confortato dalle indicazioni metalliche dell'oracolo, riprendo la marcia con una punta di malinconia.

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