
Lo zio Giovanni, lui sì che era comunista. Di mestiere faceva il venditore ambulante. Biancheria, abbigliamento. "Maie e mudande", sintetizzava lui, con lo spirito pratico del montanaro che non ama infiorettare i discorsi e va dritto al sodo. Essendo nato nel 1920, lo zio aveva attraversato per intero quella fase grigia (grigio scuro, a dire il vero... tendente al nero-orbace,) che aveva portato il nostro Paese ai disastri del secondo conflitto mondiale. A guerra finita si era perfino trasferito nella vicina Jugoslavia, in cerca di lavoro. Per un periodo lo aveva accompagnato anche mio padre, che non era nemmeno maggiorenne, dato che la maggiore età a quei tempi si acquisiva a 21 anni. La leggenda vuole che papà, assieme ad altri baldi suoi coetanei, dovesse trascorrere un'intera nottata arrampicato su una pianta, per sfuggire a una schiera di bellicosi indigeni a cui quei giovanotti, insieme a lui, avevano insidiato le fidanzate... Non erano tempi facili, e lo zio Giovanni percorreva tutta la pedemontana pordenonese a bordo di un furgone sempre più malconcio, nel quale era custodita tutta la sua mercanzia. Se capitava che qualcuno non poteva pagare, be', lo zio la merce la consegnava lo stesso e poi… si scordava di passare a riscuotere, con grave disappunto della di lui consorte, che nel frattempo a casa aveva tre creature a cui badare. Ecco, la zia Maria meriterebbe tutto un capitolo a parte, perché per crescere i figli lei si è tolta per davvero il pane di bocca, mangiando quando ne aveva il tempo, e magari limitandosi a dare un morso all'immancabile mela, conservata nelle tasche del gurmàl, il grembiule che la zia portava addosso come una seconda pelle. Così come lo zio, per ius sanguinis aveva ereditato il soprannome di Pòciu, la zia Maria dal padre ottenne in dote l'appellativo di Conàla, da condividere con mia madre. Ai tempi della civiltà contadina in paese ci si conosceva tutti e ciascuno aveva il suo soprannome, anche la famiglia, la schiatta, erano identificate con appellativi spesso carichi di suggestione. Antivède, Martèla, Natòn, Pìndol, Parentònia, Budèl. Echi melodiosi di un mondo scomparso. Quelle volte che, di lunedì, gli zii mi portavano con loro al mercato, per me che a malapena mi reggevo sulle gambe e avevo da poco iniziato a parlare (in seguito avrei recuperato in fretta il distacco, con buona pace di chi mi accudiva), per me, dicevo, era sempre fonte di spensierata allegria mettere a soqquadro l'interno del furgone, il “camion” - come l'hanno sempre chiamato loro. Lo zio aveva la mole imponente di un sensale di bestiame, ma i suoi abbracci soffocanti e la stretta di mano che ti stritolava le falangi erano carichi di passione. Quella stessa passione civile che il Pòciu portava in tutte le osterie della pedemontana, veri e propri palcoscenici della sua laica fede militante, improvvisate cattedre di dottrina socialista e politica internazionale, non troppo sicuro rifugio dalle vigorose reprimende della zia. Sulla sua tomba, fra i monti che lo hanno visto bambino, non manca mai un mazzo di fiori rossi, a impreziosire la coltre di neve che imbianca gli inverni clautani. Dovunque sia in questo momento, sono sicuro che lo zio Giovanni sta osservando la scena con il suo sguardo compiaciuto e con quel sorriso largo che gli faceva chiudere gli occhi a fessura, mentre la zia, poco discosta e stando bene attenta a non farsi accorgere per non dargli soddisfazione, approva fieramente, con le mani nelle tasche del gurmàl.
Nessun commento:
Posta un commento
se sei un utente anonimo, ricorda di aggiungere in calce il tuo nome ;-)