(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

sabato 11 giugno 2011

Dell'eroismo

Marek Edelman era polacco e faceva il cardiologo. Quando nel 1943 i giovani del ghetto di Varsavia insorsero contro le Ss impegnate ad annientare le loro famiglie, Edelman, allora ventiquattrenne, fu uno dei comandanti della rivolta e tra i pochissimi che riuscirono a salvarsi. Cheik Sarr arrivava dal Senegal ed era muratore. Era in Italia perché qui contava di potersi costruire un futuro migliore. Nell’estate del 2004 da una spiaggia del Tirreno vede in mare un uomo in difficoltà e non ha esitazioni a buttarsi in acqua per salvarlo. Mettendo fine alla propria vita e a tutti i sogni e le speranze di un ragazzo di 27 anni. Quando il governo italiano ha deciso di impiegare le nostre forze armate in alcune operazioni di polizia internazionale che ci vedono tuttora impegnati in virtù della nostra appartenenza al Patto Atlantico, è verosimile che si sia messa in conto la possibilità di subire qualche perdita. Malgrado a tali missioni siano attribuiti anche intenti umanitari e funzioni di supporto e assistenza ai governi e alle popolazioni locali, non si può dimenticare che i nostri militari si trovano a operare in contesti difficili, caratterizzati da azioni di guerriglia e terrorismo. Definire “eroe” ogni militare ferito o caduto all’estero non serve a mitigare il dolore dei parenti. Che lo faccia un genitore, riferendosi al proprio figlio (o viceversa) è umanamente comprensibile. Se però si comincia a generalizzare, con un uso poco meditato delle parole si rischia infine di svilirne il significato. I soldati italiani si sono sempre distinti per la carica di umanità che si portano al seguito, guadagnandosi la benevolenza e il rispetto delle popolazioni locali, e di questo possiamo andar fieri. Ma da qui a parlare di eroismo, ce ne corre. Nei teatri operativi in cui essi agiscono imprudenza e disattenzione possono essere fatali. Più spesso è il caso, o se si vuole il destino, a fare la differenza fra la vita e la morte e allora non dovrebbe essere considerato sacrilego definire semplicemente “vittima” il soldato che muore o rimane ferito in un’attentato.

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