e le note vengono aggiornate di quando in quando)
domenica 10 novembre 2013
Due volte genitori
L'edizione 2011 del Festival Internazionale del Giornalismo di Perugia è quella che ricordo con maggiore gratitudine, per la ricchezza di contenuti, emozioni e suggestioni raccolte. Uno dei primi temi affrontati nel corso della rassegna fu la manipolazione della verità attraverso le immagini. Quando assistiamo alla proiezione di un film, anche se tratta di fatti storici o vicende realmente accadute, siamo tutti abbastanza consapevoli che si tratta di finzione. Di fronte a un documentario, un reportage, o un servizio giornalistico, viceversa, propendiamo istintivamente a considerare le immagini una rappresentazione oggettiva della realtà; ci paiono, insomma, più vere. Ricordo una grafica con due vignette stilizzate in bianco e nero che sintetizza con sorprendente efficacia la fragilità delle nostre certezze. Nel primo quadro è ritratto lo schermo di un televisore in cui quella che appare come una mano armata di coltello dalla sinistra dello schermo si solleva minacciosa verso un soggetto inerme che sta sul lato opposto. In quello successivo l'inquadratura si allarga e, oltre alla telecamera che sta riprendendo la scena, nel cui visore compare esattamente quanto visto in precedenza, mostra l'intero contesto. Succede così che la verità si presenti capovolta, e quello che sembrava l'aggressore, in realtà si rivela essere un poveraccio che scappa a gambe levate, inseguito con fare minaccioso da chi pareva essere il soggetto aggredito. Nel documentario visto a Perugia si analizzava la manipolazione intenzionale dei fatti, con riferimento specifico al conflitto mediorientale. In realtà, quanto vediamo in tv è sempre comunque una rappresentazione “parziale”, nel senso che mostra solamente una parte di verità. Allo stesso modo in cui ciascuno di noi quando narra, comunica, racconta un episodio a cui ha assistito, ne dà la “propria” versione, secondo quanto ha visto, colto, compreso. In piena buona fede, nella maggior parte dei casi. “Due volte genitori” è un documentario di Claudio Cipelletti sul percorso di rinascita affrontato da alcuni genitori di figli omosessuali in seguito al coming out dei propri figli. Storie di vita vera, piene di un'umanità intensa e dolorosa, dove si affastellano smarrimento, rabbia, frustrazione, sensi di colpa, prese di coscienza, buonsenso, amore, gioia. Persone reali che devono fare i conti (prima di tutto con se stessi) con pregiudizi, luoghi comuni, malintesi e fraintendimenti. Genitori che perdono un figlio immaginario, quello che avrebbero voluto, e ne ritrovano uno più autentico. L'associazione che riunisce queste mamme e papà meravigliosi partecipa anche all'annuale gay pride. Quello che la tv mostra solitamente come una carnascialesca sfilata di marcantoni seminudi, agghindati come Moira Orfei. Nel video di Cipelletti compare un'altra faccia della manifestazione: un palco da cui i genitori dell'AGEDO testimoniano tutto il loro affetto non soltanto per i propri figli, ma anche per i più sfortunati rampolli di tante altre mamme e papà più o meno innocentemente inconsapevoli. In questi giorni ho letto sulla stampa locale una lettera, piuttosto garbata, in verità, con cui un mio concittadino esprime il suo (legittimo) disagio per l'apertura dimostrata nei confronti dei matrimoni gay, tema che non c'entra con il film di Cipelletti né con il ragionamento che tentiamo di svolgere. “Sarà perché sono figlio di famiglia”, scrive il garbato concittadino, “cioè figlio di un padre ed una madre, ...”. E già qui, con altrettanta delicatezza verrebbe da osservare che le persone omosessuali non sono nate sotto i cavoli (il fin troppo facile riferimento ad altra specie vegetale suonerebbe come una battuta becera e fuori luogo): sono anche loro figli di un padre ed una madre. E prosegue “ … uomo e donna uniti in matrimonio nonché ripercorritori dello stesso sistema di trasmissione e accoglienza e sviluppo della vita umana vissuto dalle generazioni precedenti ...”. Senza volere ad ogni costo sostenere i matrimoni gay, anche a questo proposito si potrebbe sommessamente osservare che questo tradizionale sistema di sviluppo della vita umana non sempre è risultato così virtuoso come una plurisecolare esperienza parrebbe dover garantire. Insomma, almeno il beneficio del dubbio dovremmo coltivarlo. Considerarsi granitici portatori di verità rivelate non è un segnale di maturità civile. Dimostrarsi disponibili al dialogo, alla scoperta e alla comprensione, può essere, invece, una valida premessa per una migliore convivenza che includa tutte le diversità.
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