
Un pomeriggio di una giornata lavorativa qualsiasi vedo un anziano signore in salone che si avvicina al bancone e vi appoggia la sua valigetta ventiquattrore. Poi la apre e ne estrae qualcosa che lancia verso di noi. Immaginavo si trattasse di una distinta di versamento accartocciata con rabbia per averne sbagliato la compilazione. Ma quando noto che i lanci non cessano e si cominciano a udire le urla preoccupate di Lisa, capisco che c'è qualcosa che non va. All'interno della valigetta era custodito un intero cartone di uova, dal quale il dispettoso vecchietto attingeva per bersagliarci. Riuscii a scansare fortunosamente uno di quei proietti, che mi macchiò una scarpa. Fu il D. a intervenire, con la sua autorevolezza, ma soprattutto con la sua prestanza fisica, per bloccare la gragnuola di colpi e stendere sul pavimento un po' di segatura in attesa che arrivasse un commesso per una prima sommaria pulizia del locale. Scoprimmo poi che il vecchietto aveva tutte le ragioni per protestare in quella forma tanto inusuale, che peraltro egli andava replicando anche negli altri sportelli della piazza. A supporto del suo gesto usava lasciare un dossier di fotocopie che, fra ritagli di giornali, copie di lettere e di documenti vari, illustrava in dettaglio le sue sfortunatissime vicende umane, in cui la Banca aveva giocato un ruolo tutt'altro che marginale. C'era di mezzo una fusione d'istituti e dei certificati azionari posti a garanzia di affidamenti, che furono persi nel trasloco degli uffici mentre lui si trovava all'estero. Vicenda kafkiana, che l'aveva portato alla bancarotta e in carcere, salvo poi sentirsi dire, a distanza di anni, che le azioni erano state ritrovate...
Insomma, i miei giorni alla Otto sono stati fondamentale palestra di vita e di mestiere, che a distanza di qualche lustro ricordo ancora con malinconia. Al momento di congedarmi, lasciai per ultimo il Direttore, sempre impegnatissimo in mille faccende. Feci irruzione nel suo ufficio per un veloce saluto mentre ancora stava discutendo con un cliente, ma, congedando il suo interlocutore, il D. mi afferrò il polso stringendo con forza: “Aspetta, Aure'”. “Perdo il treno, direttore”. “Aspetta!”. E quando il cliente se ne fu andato mi stritolò in un abbraccio commosso che pareva non volermi più lasciare andar via.
APPENDICE.
Lamento alla fermata del bus nella canicola di una sera romana.
Dio del ciel, s'io fossi un orso bianco
ora sarei laggiù, al Polo Sud.
Dove, tra foche e trichechi,
coi piedi a bagnomaria,
alfin l'ascelle umide non avria.
Suda, colletto bianco suda.
Diglielo tu, a quelli là.
Digli che non porti i bermuda,
e a lavorar, sudi anche tu.
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