(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

venerdì 11 ottobre 2019

La signora Shirley e il Valzer delle candele

Ho mosso i miei primi passi musicali da bambino grazie al “Metodo per fisarmonica” di Luigi Lanàro, una smilza raccolta di esercizi per principianti e semplici trascrizioni di motivi più o meno noti. Fra questi vi è anche una “Celebre aria scozzese” (da cui, si aggiunge, è stato tratto il Valzer delle candele). Il testo di studio dalla copertina blu riposa ancora su uno degli scaffali di casa mia, con le annotazioni dei maestri del tempo e i bordi delle pagine ormai bruniti. Per indicare le dimensioni di una fisarmonica si usa riferirsi al numero di bassi, i pulsanti che si trovano sul lato sinistro dello strumento. La “taglia” standard è 120 bassi, ma ce ne sono anche di più piccole. A quell’epoca la mia ne aveva 32, manifattura Borgna di Casarsa della Delizia. Fu un regalo di mio zio Italo, quando lui ne acquistò per sé una più grande. Qualche giorno fa ho rivisto un bel film ispirato a una storia vera (“La cuoca del presidente”, nella versione italiana). Hortense Laborie è una stimata cuoca del Périgord indaffarata a preparare il suo ultimo pranzo al termine di un anno di lavoro in una base scientifica francese in Antartide. Attraverso una serie di flashback il film rievoca le sue frenetiche giornate trascorse all’Eliseo come chef personale del presidente Mitterand. Il carattere di Hortense non è facile, ma così come a Parigi riuscì a guadagnarsi la stima del Presidente, anche in Antartide lascerà il segno. A conclusione del pranzo di commiato i commensali si alzano in piedi intonando per lei la versione francese di quella melodia di cui si diceva. Mi ero convinto nel corso degli anni che per gli inglesi questo brano avesse un significato particolare, ripromettendomi di scoprirne prima o poi le ragioni, ma si vede che i tempi non erano ancora maturi. Fino a qualche sera fa, quando al termine del film sono andato a ricuperare il Metodo del maestro Lanàro e ho riavvolto il nastro della memoria.

Fra i vicini di casa della mia infanzia c’era una famiglia davvero speciale. Il loro figlio più grande, Jamie, era mio coetaneo, e perciò complice (ma direi piuttosto ispiratore) di molteplici avventure, marachelle, mascalzonate infantili. Aveva una sorella più piccola, Elisabeth, e un fratellino, Geoffrey. La ragione di questi nomi esotici è dovuta all’origine inglese della loro mamma. La signora Shirley lavorava in ospedale, in un ufficio dove si compilavano a mano con grossi pennarelli e in bella grafia tutti i cartelli indicatori necessari alla grande e complessa struttura (sappiano i più giovani lettori che c’è stato un tempo in cui non esistevano i personal computer, con i loro programmi di grafica che consentono di ottenere velocemente un’impaginazione perfetta, scegliere fra centinaia di font e adattare con facilità le dimensioni dei caratteri, e nemmeno le stampanti laser). La ricordo come ottima cuoca, ma soprattutto sublime pasticcera, per i dolci che sapeva sfornare. A un certo punto, l’intera famiglia si trasferì nel Regno Unito, ma tornarono ben presto in visita in Italia e potemmo così rivederci. Immagino che l’anno fosse il 1976 per due motivi: da un lato, il disastroso terremoto che colpì il Friuli era motivo di preoccupazione sufficiente a giustificare un viaggio per sincerarsi della situazione in cui si trovavano i parenti rimasti in Italia, e poi io avevo da poco iniziato a studiare musica. Un pomeriggio la signora Shirley passò a salutarci. Dopo aver bevuto un caffè in compagnia di mia madre, arrivò, inevitabile, la richiesta di suonare qualcosa. Il mio repertorio dell’epoca era limitato ai pochi brani contenuti nel libro dalla copertina blu. Scelsi quella celebre aria perché era quanto di meglio mi pareva di poter offrire. Ricordo ancora molto bene l’emozione visibile negli occhi della signora quando al termine di un’esecuzione incerta e acerba venne ad abbracciarmi esclamando: “Tu non sai che grande regalo mi hai fatto oggi!”. E io in effetti, stupito per l’effetto ottenuto, davvero non capivo. Mi ricordai in seguito di quell’episodio. Nel 1986, durante l’irripetibile estate dei miei vent’anni (ne ho parlato qui: http://www.iltaccuinodipiterpan.it/2010/06/la-lunga-estate-dell86.html), quando con l’orchestra bicipite “I Gitani” allietavamo le giornate degli anziani in vacanza, capitò una di quelle serate storte, con un pubblico freddo e ostile. Il Kursaal di Arta Terme era pieno di gente. Tutti seduti ai lati della sala. E non c’era verso di schiodarli: ballavano soltanto poche coppie. Saputo che fra loro c’era una quarantina di pensionati inglesi provai allora col Valzer delle candele. Istantaneamente tutti e quaranta gli attempati britanni attaccarono a ballare e cantare in coro, trascinando in pista anche i più recalcitranti e risollevando così le sorti della serata.

Il titolo originario di quella ballata scozzese, presente in una raccolta pubblicata verso la fine del 1700, è Auld Lang Syne. Stando a un articolo comparso sul quotidiano La Stampa nel 2013, la melodia sarebbe opera di un liutista torinese approdato alla corte di Scozia, dove entrò nelle grazie della regina Maria Stuarda, divenendone l’amante, ma altre fonti sostengono che questa sia soltanto una leggenda (si veda in proposito l’interessante blog Terre Celtiche). Se tradizionalmente il brano veniva e viene ancora cantato a capodanno per salutare l’anno trascorso, si è poi diffusa l’abitudine di intonarlo in occasione di congedi, separazioni e addii in segno di gratitudine e con l’invito a ricordare i bei tempi passati insieme. Succede così che a più di quarant’anni da quella mia acerba performance, oggi ho finalmente compreso quale tempesta di emozioni si dev’essere scatenata nell’animo della signora Shirley quel giorno che venne a prendere il caffè da noi (e da buon torinese che non crede nel caso e insiste a consultare gli oroscopi, continuerò a pensare che il compositore di quell’aria commovente e malinconica sia stato davvero lo sfortunato liutista sabaudo).

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