(dove il viaggio non segue soltanto un itinerario terrestre
e le note vengono aggiornate di quando in quando)

lunedì 11 aprile 2016

IJF16 - Cinque


La mattinata dell'ultimo giorno di Festival si rivela ricca di succulente sorprese. Il primo panel (anglismo da festival) cui assisto tratta di trasparenza. E, già dal promo che viene proiettato in loop in attesa che si inizi a parlare, la situazione pare piuttosto chiara. Secondo una recente rilevazione, sette volte su dieci chi vuole ottenere un'informazione che è in mano allo Stato non ottiene ciò che chiede. Sette volte su dieci. L'Italia è uno dei Paesi meno trasparenti al mondo (viene citata una classifica che ci colloca al 97simo posto su 102...). Devo dire che, nella mia personale esperienza, avevo già avuto parecchie dimostrazioni di come quanto affermato dagli organizzatori del panel fosse veritiero, anche soltanto in ambito locale. Non avevo idea che si trattasse di un atteggiamento generalizzato e diffuso. Nella normativa italiana sulla trasparenza vi è una regola che il primo relatore, di professione avvocato, chiama “comma Andreotti” (mentre la slide alle sue spalle mostra l'ex senatore intento a ostentare un dito medio rivolto all'uditorio). Il cittadino che presenta a un qualche ufficio pubblico una richiesta di accesso agli atti (tecnicamente così si chiama), non soltanto deve dichiarare (e, eventualmente dimostrare) di avere un interesse giuridicamente rilevante a ottenere l'informazione o il documento richiesti, ma, secondo questo comma, ciascuno di noi non può chiedere informazioni a un qualsiasi ufficio pubblico allo scopo di esercitare un controllo generalizzato dell'attività della Pubblica Amministrazione. E ora il significato del dito medio senatoriale si comprende meglio... Un richiamo a questo, per me odiosissimo e intollerabile, comma mi fu fatto quando chiesi via mail al mio Comune di inviarmi copia di una relazione, già discussa in Consiglio Comunale e ivi approvata, quindi documento di pubblico dominio, riguardante i lavori di una certa palestra che si stava tentando di realizzare (e che ancora non è stata completata). La Pubblica Amministrazione, inoltre, gode del privilegio del cosiddetto “silenzio diniego”: se non risponde entro 30 giorni, la richiesta si intende rigettata. E non c'è nemmeno bisogno di spiegare il perché. Ancora. Un altro relatore spiega in maniera eloquente quanto io in maniera molto più naif vado tentando di dire da un pezzo. E cioè che troppo spesso le norme vengono applicate dagli uffici pubblici in modo burocratico, senza comprendere che dietro ciascuna richiesta vi sono reali problemi e bisogni concreti dei cittadini. A differenza di quanto accade negli Stati Uniti, dove invece vige il principio di “leale collaborazione” da parte degli uffici pubblici. Per cui può accadere che un giornalista, una chieste informazioni, si veda inviare anche a distanza di mesi una mail di integrazione, perché l'ufficio (statunitense) adito ha rintracciato un ulteriore documento che può essere di interesse del richiedente. Per noi, fantascienza. Dopo pranzo, invece, decido di assistere a un panel in cui si parla di diritti LGBT, gestazione per altri e adozioni gay. All'ingresso della sala due poliziotti con metal detector chiedono di aprire le borse e ci passano affianco il loro aggeggio. Mi stupisco per la precauzione, essendo la prima volta che la vedo applicata in una delle conferenze del Festival. Poi, un po' tenendo conto della delicatezza dei temi trattati, un po' considerando che fra i relatori c'è una giudice del tribunale dei minori di Roma, capisco. Conferenza affollatissima. Gente in piedi e seduta lungo tutti gli spazi liberi della sala. Non me lo aspettavo. I relatori iniziano con una disamina del ruolo che hanno avuto i media negli ultimi mesi nella narrazione della questione LGBT. E ne vengono fuori delle belle. Non soltanto passando in rassegna le testate più dichiaratamente schierate, come Libero e Il Giornale. Anche il Corriere non ne esce benissimo. La rappresentazione della comunità LGBT che emerge dalla carta stampata (e dalle relative versioni web) passa dall'irrisione allo scandalo, facendo poi una gran confusione quando si tratta di argomenti che con tutta evidenza l'articolista non conosce. I media in questo frangente hanno contribuito a disorientare un'opinione pubblica già superficiale e distratta per conto suo quando si tratta di affrontare temi viziati dal pregiudizio diffuso. In questo contesto, il magistrato romano mi fa tornare alla mente Shirin Ebadi, la giudice iraniana (leonessa di Persia, la definii io dopo averla ascoltata in un'edizione di Vicino/Lontano, a Udine). Questa signora, madre e nonna, professionalmente preparata, risoluta e concreta, ha disintegrato con la forza della verità e del diritto, basandosi sulla propria esperienza reale, tutti i pregiudizi diffusi a mezzo stampa e social network. Avendo esaminato alcune coppie omosessuali che chiedevano la stepchild adoption, il magistrato ha riferito di aver trovato queste persone mediamente molto più determinate e preparate di tante altre coppie etero a portare avanti la propria relazione di coppia, con tutte le necessarie conseguenze. Dovendo decidere nell'interesse prevalente del minore, il magistrato ha riconosciuto nelle coppie esaminate le condizioni necessarie per un sereno sviluppo della personalità dell'adottando, perché famiglia è là dove c'è amore. A prescindere dall'orientamento sessuale dei componenti. Si tratta evidentemente di argomenti spinosi che suscitano parecchi mal di pancia e che sono stati strumentalmente cavalcati nel corso degli ultimi mesi a scopo propagandistico. Non a caso genderisti di professione, resi famosi da un sostegno isterico di certe masse, ora si sono candidati chi a sindaco di Roma, chi in neonati instant party, che dureranno lo spazio di una competizione elettorale. E dell'emergenza gender non se ne occupano più, perché troppo indaffarati a gestire il consenso così faticosamente lucrato.

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