“Questa è Safontane”, annunciò mio padre, fiero di potermi mostrare i luoghi della propria giovinezza. Sette fontane.
Di certo era qui che veniva a rifornirsi d'acqua assieme ai suoi compagni di lavoro, quando faceva il taglialegna nei boschi di questa valle puzzolente di acqua solforosa.
Le poche foto di quel periodo, conservate in un cassetto del comodino nella camera dei miei, mostrano un giovane robusto, dal piglio spavaldo.
Forse in cuor suo mio padre vorrebbe che diventassi anch'io così.
Appena messo il naso fuori dal portellone dell'aereo, io e Luca veniamo investiti da un muro di calore asfissiante. E' l'accogliente benvenuto che ci riserva l'isola del sole, in questa antica terra di eroi. Qui a Rodi ci sentiamo presto come a casa.
Ieri siamo passati davanti agli uffici della polizia locale. Sulla facciata dell'edificio s'intravede ancora una scritta ormai sbiadita: Caserma Principe di Piemonte. L'anziano tassista che ci ha abbordato mentre aspettavamo l'autobus fuori dall'albergo e ha tanto insistito per accompagnarci in città si è rivelato un abile negoziatore. Ho contrattato a lungo il prezzo della corsa prima di raggiungere un accordo. Dopo che siamo saliti in auto, percorse poche centinaia di metri il tassista ha fatto salire una coppia di turisti svedesi che hanno pagato la corsa a prezzo pieno senza discutere. Durante il tragitto mi ha coinvolto entusiasta in un coro di “canti italiani”. Pareva un fiume in piena: Giovinezza, Faccetta nera, Sole che sorgi, Fischia il sasso... Malgrado gli anni trascorsi ricordava i testi delle canzoni con una facilità sorprendente, mentre io faticavo a stargli dietro. Si sgolava ridanciano e orgoglioso di poter condividere il ricordo di un periodo che per lui dev'essere stato davvero fecondo. Luca, seduto dietro con i due scandinavi, ha cominciato ben presto a sussultare, agitare le braccia e profondersi in scuse, abbozzando in inglese improbabili giustificazioni, mentre loro si scambiavano occhiate interrogative e parevano indecisi se considerare più pericoloso il tassista o quel piccolo buddha cantonese che gli si agitava accanto. Ad Archangelos le case hanno i muri bianchi di calce, mentre porte, cancelli, stipiti e finestre sono dipinti coi più vivaci colori dell'arcobaleno. Sembra proprio di essere in un pueblo della Sierra Madre.
Mi aspetto di veder comparire da un momento all'altro Tex Willer e i suoi pard, mentre invece ad un tratto si avvicina un anziano del posto che ci ha sentito parlare italiano.
“Conoscere due o tre lingue è come ... un sole!”, esclama allargando le braccia, con un sorriso che gli illumina gli occhi. Si sforza di ricordare qualche parola, ma dice che ha potuto frequentare la scuola italiana soltanto per un anno perché i suoi genitori non volevano che imparasse la lingua degli occupanti. Prima di rientrare nel grigiore fumoso di una metropoli qualsiasi, dopo che ci siamo storditi coi colori e i profumi di questa terra, io e Luca decidiamo di concludere il nostro tour dell'isola a Epta Pigès, Le sette sorgenti. Sfidando la calura di questa torrida estate olimpica, saliamo di buon'ora sulla corriera che ci porterà a destino.
Sedute di fianco a noi ci sono tre isolane, vestite di nero. La più giovane durante il viaggio continua a voltarsi verso di me. Non riesco a capire se mi sta fissando, perché indossa grandi occhiali da sole che le coprono gli occhi.
Arrivati a Epta Pigès restiamo un po' delusi: ci aspettavamo di poter rivivere le emozioni provate nella Valle delle farfalle, ma forse siamo noi a essere diventati un po' troppo esigenti.
Proviamo allora a lasciar decantare le sensazioni accumulate in questi giorni e i colori, la luce e gli odori che ci rimarranno tatuati nell'anima, mentre aspettiamo che riparta la corriera.
Ci sono due pavoni che ciondolano attorno a una colonnina di ghisa sulla quale si legge in rilievo: “Magistrato alle acque – 1931”.
Le tre donne che ci hanno accompagnato nel viaggio di andata, la mattina, sono lì ad aspettare pure loro.
Ci hanno visto. La più giovane continua a fissarmi.
Dopo qualche minuto si avvicina, solleva gli occhiali scoprendo i suoi occhi mediterranei, e mi chiede: “Che ora...?”, indicando il mio orologio da polso.
“Sono quasi le tre”, rispondo.
“Grazie”, fa lei.
Vorrei riuscire a trattenerla ancora per qualche istante, prima che se ne torni dalle sue amiche, così le chiedo: “E in greco come si dice: che ora è?”
“Ti ora ine”, mi accontenta.
“Ah, grazie”.
E' tutto quel che mi viene in mente.
Tra i pini, dove si sono accucciati i due pigri pavoni che dovrebbero animare l'ambiente, scorgo un boscaiolo, un giovanotto robusto con l'ascia in spalla voltato verso di noi. Mi pare che sorrida, ma se ne va via subito.
Mi rivedo allora bambino, camminare al fianco di mio padre in una lontana valle puzzolente di acqua solforosa, mentre la mano grassoccia di Luca mi percuote con insistenza la spalla, riportandomi alla realtà: “Oh! La corriera sta partendo! Muoviti!”.
Arrivederci, papà.
Emozioni...
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